E' un Claudio Lotito double face: da presidente (e non semplice proprietario) della Lazio, con l'Aquila sul braccio e la fierezza dinanzi la Curva della Lazio a margine del trionfo nella settima Coppa Italia vinta dalla Lazio, alle ceneri di Salerno. Da "Formello", centro sportivo di eccellenza al pellegrinaggio di Salerno tra il "Mary Rosy" e "l'ultimo minuto". Da Tare in grado di scoprire e valorizzare giocatori perfetti sconosciuti (Milinkovic Savic, Luis Alberto) al diesse Fabiani in grado di assicurare l'usurato sicuro (Calaiò, Lopez, Rosina) e qualche svincolato di lusso (Coda e Donnarumma, quest'ultimo perso a parametro zero). Da Roma a Salerno cambia un mondo con la stessa proprietà in grado di programmare su sponda Lazio stagioni dignitose, capace di spegnersi e derogare da sè stessa in territorio campano: basta varcare il confine regionale per passare da una gestione oculata al vivere alla giornata, senza poter (non voler) programmare il futuro. Ed allora, al netto di una salvezza che sta per essere consolidata in carta bollata, nessun sentimento di ravvedimento è stato palesato. Nessuno a Salerno, tra i membri della triade, ha deciso di metterci la faccia. Resta soltanto la lettera di "totò e Peppino" con la quale si promette tutto ciò che non si può realizzare e che qualcuno, ha consentito di poter diffondere pur di esaltare il proprio egocentrismo. Se la Salernitana, in fondo, da quattro anni galleggia che è una bellezza sul fondo della classifica, la colpa non è solo del "padre-padrone", ma di chi ancora non ha deciso di alzare la testa dalla sabbia...